BENEDETTI CRUCCHI
di Angelo Santoro
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“… Ed è quindine con grandene onorene che quandone mi hanno telefonatone per chiedermi di parteciparene a questa presentazionene… chene mi sono sentitone in doverene di esserene qui presentene quest’oggine alla presentazione di questone grandene scrittorene…”.
L’assessore Lanzafame, strizzato in un completo di lino blu troppo stretto, ha preso la parola per primo. È balzato sull’attenti, ha ingollato un’intera bottiglietta d’acqua gassata e, dopo una lunga pausa teatrale, ha iniziato a parlare gesticolando, con quelle sue manacce da tricheco, come se stesse annaspando nell’aria calda di questo torrido pomeriggio di metà luglio.
“… ma noi siamone quine per il libro… questo libro… che racchiudene una poesia meravigliosane, una descrizionene della nostra bellane cittadinane, dei nostri splendidine monumentine, del nostro marene…”.
Anche se sono già le sette di sera, la sala del teatro comunale è un incandescente forno a microonde posto nel bel mezzo del centro storico, a metà strada tra il ponte umbertino e le panchine del porto, corrose e arrugginite dalla salsedine del mar Ionio. Un grosso forno acceso dai primi raggi del sole mattutino, lucidato a nuovo e che puzza pure di ammoniaca. Il pulpito dal quale si agita l’assessore si trova sul lato destro del palco, accanto a un lungo tavolone su cui sono distribuiti a casaccio microfoni e bottigliette d’acqua nella stessa quantità. Il velluto del sipario, le rifiniture barocche dei palchetti e le poltrone, nuove di zecca, brillano di luce propria e il grosso lampadario di cristallo, che scende minaccioso dal soffitto, sembra pronto a lanciare sulla platea i suoi dardi puntuti. Sul fondo, disperso dietro l’orizzonte di colonne e tendaggi, s’intravede il foyer deserto. Di Barbara nemmeno l’ombra.
“Giuseppe… Giuseppene… da quant’ène ormai che ci conosciamone?”, l’assessore si gira di tre quarti, cercando lo sguardo dello scrittore che continua a fissare un punto indefinito in fondo alla sala. “Tu erine piccolo… piccolo così…”, i suoi gesti ampi si ammorbidiscono adesso, mentre tenta di descrivere quanto fosse alto il bimbo Giuseppe quando, anni addietro, ancora uno scricciolo – sembra di vederlo con i suoi calzoncini corti, gli occhiali spessi e il gelato sgocciolante in mano – aveva fatto la sua comparsa nella villa estiva della famiglia Lanzafame. Poi, come un novello Cicerone, getta uno sguardo più deciso alla platea ricominciando ad agitare le mani all’altezza delle spalle. “… e tuo padrene… tuo padrene Alfio, chene…”.
Il ragioniere Alfio Mollica, vecchio conoscente dell’assessore, è seduto in prima fila con la sua famiglia: la moglie Angelina e il figlio più grande, Salvatore, con tanto di consorte e marmocchi al seguito. Tutt’intorno a loro la desolazione, poltrone linde e vergini che non hanno ancora visto un fondoschiena da quando due settimane fa – dopo quarantacinque anni di ristrutturazione – il comune ha riaperto lo storico teatro cittadino. Il ragioniere Alfio raccoglie lo sguardo dell’assessore e ha gli occhi lucidi come se il figlio Giuseppe si trovasse sul palco per ricevere il premio Nobel per la Letteratura o un assegno milionario direttamente dalle mani di Gerry Scotti. I suoi nipotini, del tutto incuranti della temperatura da ebollizione raggiunta in sala, stanno già marcando il territorio correndo all’impazzata su e giù per il corridoio centrale, spiluccando senza alcun ritegno i dolcetti del buffet, salendo e scendendo dal palco come in preda alle convulsioni. L’assessore Lanzafame è costretto a urlare ancora più forte per coprire il frastuono rimbombante dei due bambini. Ma badate, lo strascichio che sentite nelle sue parole non è dovuto all’eco prodotta dall’ampia sala vuota, quanto piuttosto a un suo difetto di pronuncia che si porta dietro ormai da quand’era piccolo così.
“… ma forsene io mi sto dilugandone un poco troppone e quindine è con grandene onorene che lascio la parolane ai miei colleghine sedutine qui al mio fiàncone…”.
L’assessore lascia cadere le braccia lungo i fianchi e si affloscia esausto come un sufflè riuscito male. Poi estrae il microfono dall’asta, per porgerlo agli altri relatori, senza rendersi conto che la professoressa Nicotra ha già in mano il suo e sta scalpitando per prendere la parola.
“Volevo innanzitutto ringraziare la casa editrice, la Amleto Edizioni, per avermi contattata…”. La voce da cardellino della prof. sparisce sommersa dal fischio straziante delle casse mentre l’assessore si esibisce in una breve e inutile colluttazione con il microfono, nel tentativo di rimetterlo sull’asta, per poi appoggiarlo rassegnato sul panno verde del tavolo, regalandoci un ultimo molesto tonfo metallico. L’imperturbabile scrittore Giuseppe Mollica continua sempre a guardare un punto imprecisato in fondo alla platea, senza un apparente motivo, come se gli fosse apparsa la Madonna.
Le sette e venti, e Barbara non è ancora arrivata. La professoressa nel frattempo tiene l’esiguo pubblico incollato alla sedia parlando dei giovani componimenti dell’allievo Mollica quando, nella sua classe, seduto al primo banco – sembra di vederlo con le sue camicie abbottonate fino al collo, i maglioni sbrindellati, il volto sfigurato dall’acne giovanile sotto un paio di occhiali sempre più spessi – partecipava attivamente alle lezioni facendo mostra della sua spiccata intelligenza e della sua passione per le sudate carte del Leopardi.
Ogni tanto, tra un aneddoto e l’altro, la prof. butta là, a suo buon cuore, qualche ragguaglio sulla trama del romanzo: “La storia di una famiglia, una nobile famiglia siciliana, con le sue contraddizioni e i suoi intrighi, che richiama alla mente, in certo qual modo, le atmosfere e le ambientazioni del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o di…”.
La prof. fa sfoggio di tutto il suo repertorio, fatto di reminiscenze scolastiche e letture giovanili, risalenti certamente al primo dopoguerra, a conferma del fatto che la maggior parte del ‘900 letterario italiano non è mai giunto nella soleggiata Trinacria; come se i vari Calvino, Pavese e Pasolini, pallidi e con i loro tomi sottobraccio, non avessero avuto in tasca neanche un obolo per imbarcarsi sul traghetto che dalla Calabria porta a Messina.
“… Ma si tratta anche di un romanzo storico. Ebbene sì. Romanzo storico che, con accuratezza, analizza le vicende storiche della nostra città e del nostro paese intero, in un momento tra l’altro cruciale qual è stato quello degli anni dei moti risorgimentali e dell’unità nazionale tutta… ”.
In poco più di due minuti ha già terminato il suo resoconto, con la stessa velocità con cui, prima di andare in pensione, dopo più di quarant’anni di onorata carriera, analizzava i compiti dei suoi alunni in cerca di magagne e orrori della lingua italiana da cerchiare con frenetica soddisfazione con la matita rossa e blu. Poi, fiera della sua interpretazione, si rivolge allo scrittore:
“C’è solo una cosa che volevo chiedere all’autore… non parlerei proprio di un errore, ma certamente, ecco… di una leggerezza, un’imperfezione che rende la storia non del tutto filologicamente corretta… Ecco… Mi chiedevo, caro Giuseppe, perché i vampiri?”.
Quello di Giuseppe Mollica è sì, come dice la prof., un romanzo storico ambientato nella Sicilia risorgimentale della metà dell’800 ma, in realtà, racconta le vicende di una famiglia di vampiri che abitano il castello del centro storico. L’idea dei vampiri è stata cucinata, mangiata e digerita, è proprio il caso di dirlo, dall’editore in persona, sua maestà ‘Amleto Edizioni’, più di un anno addietro, durante una cena a base di molluschi e pesce spada al ristorante ‘Lo scoglio. Da Mimmo e Concetta’. Forse in preda a crampi intestinali dovuti all’abbuffata di mitili, l’editore aveva pensato bene di fondere insieme l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia e la moda dei best seller in stile Twilight per confezionare un soggetto che gli era sembrato subito esplosivo e la mattina dopo, una domenica d’aprile, aveva pensato, senza neanche un attimo di esitazione, di affidarlo al suo scrittore di punta, Giuseppe Mollica. Durante una telegrafica ed ermetica telefonata fatta di frasi a effetto, parole smozzicate e sonori rutti post-sbornia gli aveva promesso che dopo questa fatica letteraria avrebbe finalmente pubblicato il suo manoscritto di una vita: un romanzo-inchiesta sulle corruzioni e i veleni legati al polo petrolchimico sorto negli anni Cinquanta sulla costa alle porte della città. Ed è proprio di questo che sta parlando adesso, paonazzo in volto, l’autore Mollica, risvegliatosi dalla catalessi che, fino a qualche secondo fa, lo aveva costretto a un mutismo rassegnato e consapevole:
“… Perché lo so che è difficile immaginare un vampiro di… come posso dire… un vampiro di mare… sì, di mare, ecco… Però anche qua, in questa ridente cittadina, ci stanno i vampiri, che si crede… chi ha inquinato la nostra meravigliosa costa se non i vampiri? C’erano nell’800 e ci sono stati anche negli anni Cinquanta, quando hanno costruito il petrolchimico… loro sono stati, i vampiri… e il problema è che in giro ce ne stanno ancora troppi di vampiri… con le loro giacche, le loro cravatte… con le macchine blu, i loro timbri, le loro leggi… anche l’assessore qui… anche lui ne avrà conosciuto qualcuno, no? Magari ci lavora fianco a fianco e non lo sa…”.
L’assessore Lanzafame, adesso, ha il volto blu come il suo completo e sbattendo il pugno sul tavolo sta tentando di contrastare la voce dello scrittore: “Ma cosane stai dicendone Giuseppene… io sono allibitone… mi si vuole farene passarene per un vampìrone… a me… ma non diciamone fesseriene, non è questo il luògone… ”.
Cercate di comprendere. Lo scrittore, Giuseppe Mollica, non ha tutti i torti: è che il ragazzo si è fatto prendere un po’ troppo dall’entusiasmo. Non è certo questo il luògone. C’ha visto nero e il problema è che adesso non ha alcuna intenzione di placarsi. Il padre nel frattempo, pietrificato dalla figura barbina che sta facendo con il suo amico assessore, ha già strabuzzato gli occhi un paio di volte, spostandoli a destra e a sinistra senza sapere più dove indirizzarli. I due marmocchi, per lo spavento, hanno pure smesso di saltellare sotto il palco e adesso hanno certe facce da angioletti pronti a cedere alla lacrimuccia.
Giuseppe Mollica incalza l’assessore, sempre più turbato. I due sono talmente vicini e agitano così tanto le mani che da lontano potrebbe sembrare stiano giocando davanti a un invisibile tavolo da calcio balilla: “… E secondo lei quale dovrebbe essere il luogo in cui parlarne… sentiamo… al circo, allo stadio… o non sarebbe forse meglio parlarne qui davanti a tutti?”, e indica con un ampio gesto del braccio la fila di sedie vuote davanti a sé. “Non vi fa comodo, vero?”. Si alza in piedi e, nonostante sia lontano dal microfono, la sua voce rimbomba sempre più forte: “Diciamola la verità, diciamola, questa benedettissima verità… ”.
La professoressa Nicotra, rimasta fino ad allora seduta composta, sbotta in un rimprovero tanto improvviso quanto violento: “Mollica! Rimettiti seduto… Sei andato fuori tema… Sei sempre stato una testa calda, tu, Mollica…”.
A volte nella vita ci sono momenti in cui si ritiene più opportuno battere in ritirata. O forse, scossi da una reazione inaspettata, ci si guarda come dall’esterno, per un istante, e si comprende che si è superato il limite. O, ipotesi più probabile, è stato il rimprovero della prof., duro e perentorio come un tempo, che ha fatto rinsavire il buon Giuseppe e lo ha persuaso a sedersi, rivolgendo un timido cenno del capo alla sua amata insegnante: “Mi scusi”.
“Perché non continui a parlarci del tuo romanzo”, aggiunge la prof. ritornando a parlare con la sua voce da cardellino “… che c’è tanto piaciuto… C’è qui pure questo giovine che non ha ancora parlato… sentiamo insieme cosa ha da dire…”.
Proprio accanto alla professoressa si trova seduto, sin dall’inizio della presentazione, un ragazzo a cui finora nessuno aveva minimamente badato, e che ha tutta l’aria di chi si è trovato a passare da qui per caso. Lo sguardo imperturbabile, come se non avesse assistito alla tempesta di poco prima e fosse stato teletrasportato sulla sua sedia solo adesso. La sua voce profonda e seria stona con i capelli arruffati e l’abbigliamento più casuale che casual: “Noi del blog Maghi e Draghi abbiamo trovato il romanzo molto interessante”, parla al plurale come se gli altri del blog fossero presenti o forse, cosa ben più probabile, ha soltanto seri problemi d’identità. “… E siamo qui perché ci ha colpito molto questa nuova schiera di vampiri introdotta nella vicenda raccontata dallo scrittore. Mi riferisco naturalmente ai vampiri col cilindro e a quelli con la coppola”. E a questo punto tira fuori da una cartella due fogli da disegno. In uno c’è il ritratto di un vampiro col cilindro, vestito di tutto punto, con tanto di frac e mantello; nell’altro si riconosce invece la sagoma di un vampiro popolano, con indosso coppola siciliana, gilet, pantaloni a sbuffo e lupara a tracolla. Mentre tutti i presenti sono concentrati ad analizzare le differenze iconografiche tra i due vampiri, i miei occhi sono tutti per Barbara, che finalmente fa il suo ingresso dal fondo del teatro.
“Prego, venite da questa parte”, Barbara si rivolge a un gruppo di persone che, in fila per due, sta attraversando il foyer. Finalmente è arrivata la cavalleria. Li conto a uno a uno mentre i miei neuroni danzano in circolo sulle note della Cavalcata delle Valchirie. Lo sapevo che avrebbe fatto il possibile per salvarmi la faccia anche questa volta. In fondo per lei non è una gran fatica: si tratta solo di una piccola deviazione sul percorso, una tappa a sorpresa tra la visita al museo e la passeggiata sul lungomare. La comitiva, un folto gruppetto di turisti sulla sessantina, tutti in calzoncini corti, gilet da pescatore stracolmo di tasche, marsupi e berretti tutti uguali con sopra il marchio dell’agenzia di viaggio, non ha niente di diverso dalle altre che ho visto sfilare in occasioni precedenti. Spero solo che non siano spilorci come quelli dell’ultima volta e che acquistino almeno qualche libro in più. Ma nonostante i disperati tentativi di Barbara di indirizzare i nuovi arrivati verso le poltrone delle ultime file, quelli sembrano più attratti dal ricco buffet e dagli affreschi ottocenteschi del teatro, ignorando completamente ciò che avviene sul palco. Tra un flash e l’altro, sparato dalle loro micidiali macchinette fotografiche, mi sembra di intuire un idioma non esattamente familiare: “Komm her, Karl”, sta urlando un donnone al suo probabile marito che invece di approfittare del rinfresco si attarda a scattare foto alla porta della toilette in stile liberty. Crucchi. Benedetti crucchi. Incrocio lo sguardo di Barbara che, come per scusarsi, allarga le braccia impotente.
Nel frattempo il tizio del blog sembra avviarsi alla conclusione del suo tutt’altro che imperdibile intervento e, giratosi dalla mia parte, dice: “… Non so se l’ufficio stampa della casa editrice vuole aggiungere qualcosa…”.
Scusate, adesso tocca a me. Afferro il microfono e butto fuori un profondo e liberatorio sospiro di sollievo, certo che quello che sto per dire non avrà, come al solito, nessuna conseguenza: “Ci sono domande?”.